Che piaccia o meno, i confini nazionali sono ormai qualcosa che appartiene soltanto alla sfera geografica e politica. Viviamo innegabilmente in un contesto sovranazionale, ove il concetto di popolo travalica i limiti territoriali e abbraccia una dimensione cosmopolita. In questo quadro, l’identità, pur mantenendo la sua importanza, abita uno spazio più ampio. Tale spazio, per essere occupato consapevolmente, richiede la condivisione di valori collettivi. Tra essi, rientra anche la capacità di padroneggiare un patrimonio linguistico spendibile a livello internazionale, fondamentale per far progredire il concetto di integrazione tra popoli ma anche per far sì che ci si possa immettere agilmente in un mercato del lavoro più esteso di quello nazionale.

Dove e quando nasce

Molteplici sono i progetti destinati a tramutare in realtà questo duplice intento. Tra essi rientra anche la metodologia CLIL (Content and Language Integrated Learning), il cui scopo è favorire l’apprendimento in lingua straniera di una materia non linguistica (esempio: studiare storia dell’arte in francese). Per individuare la nascita di questo criterio didattico, bisogna andare a ritroso nel tempo e far girare il mappamondo. Più precisamente, l’attenzione va posta sulla provincia canadese del Quebec degli anni ‘70-‘80 dello scorso secolo. È in questo contesto che la CLIL iniziò a muovere i primi passi, incentivata dalle insistenze dei genitori di scolari anglofoni, ai quali i familiari desideravano garantire la padronanza sia del dizionario inglese che di quello francese. Qualcosa di simile accadde poi, in una sorta di effetto domino, sull’altra sponda dell’Atlantico. Sviluppatasi inizialmente nei Paesi Bassi, la CLIL catalizzò in seguito l’attenzione della Comunità Europea (era il 1995), che decise di favorire lo studio delle lingue straniere all’interno delle aule scolastiche proprio facendo ricorso a tale metodologia di apprendimento.

Lo sviluppo in Italia

Attualmente, questo sistema d’istruzione è parte integrante dell’offerta formativa disponibile in ogni paese membro dell’Unione Europea, dunque anche nelle classi italiane. Nel Belpaese, la CLIL fece il suo esordio ufficiale nel 2010, anno in cui il D.P.R. n. 89 stabilì che tutti gli istituti scolastici di secondo grado dovessero ricorrere a tale strategia didattica per favorire la conoscenza di una lingua straniera. Dunque, da poco più di dieci anni a questa parte, il progetto in esame ha iniziato a svilupparsi anche tra i banchi delle aule nostrane, ove ha contribuito a dare impulso principalmente allo studio dell’inglese ma anche – seppur a un livello inferiore – del francese, del tedesco e dello spagnolo. I risultati sono apprezzabili, specie se paragonati agli anni precedenti, in cui l’apprendimento di un idioma straniero restava drasticamente separato dallo studio di discipline non linguistiche. Eppure, nonostante non si possa parlare di fallimento, esistono evidenti limiti al pieno sviluppo di questa strategia.

Problema comune a tutte le regioni

Limiti che non conoscono barriere geografiche, né fanno distinzioni tra Nord e Sud. Dalla Val d’Aosta alla Sicilia, dal versante tirrenico a quello ionico, l’intera penisola italiana deve fare i conti con un handicap, rappresentato dal fatto che un numero cospicuo di docenti non è ancora in grado di vantare le competenze richieste dal MIUR per avere l’abilitazione CLIL. Nello specifico, il Ministero richiede:

  • Il livello B2 di conoscenza di una lingua straniera;
  • Le competenze metodologiche – didattiche opportune allo scopo.

Se il primo requisito può essere conseguito mediante lo studio di un altro idioma, il secondo richiede la frequentazione di uno specifico corso di perfezionamento da 60 CFU, al termine del quale verrà rilasciato un attestato che certifica l’acquisizione delle suddette capacità. Dunque, il problema non è legato alla preparazione degli insegnanti circa le discipline non linguistiche in cui essi sono specializzati – riguardo le quali nulla si può eccepire – bensì attiene alla carenze di attitudini didattico – pedagogiche idonee a rendere la CLIL fruibile a tutti gli alunni.

Correttivi necessari

Pertanto, questa lacuna è alla base del diverso sviluppo della CLIL italiana rispetto a quella di altri paesi europei. Realtà nazionali in cui il bilinguismo è parte integrante del tessuto sociale vantano – sotto questo punto di vista – un progresso maggiore rispetto a quello compiuto dall’Italia. Ciò però non autorizza a rinunciare al progetto, né a sventolare il vessillo bianco in segno di resa. Farlo significherebbe infatti accentuare il gap culturale tra la gioventù tricolore e quella delle altre nazioni. Per recuperare posizioni è invece opportuni fare in modo che l’intero corpo docente italiano riesca a dotarsi – in un lasso di tempo congruo – degli strumenti poc’anzi menzionati per far sì che la metodologia di insegnamento di cui stiamo trattando riesca a dare i propri frutti. Il correttivo necessario è quindi facile da individuare: rafforzare le competenze pedagogiche e linguistiche, farle assurgere allo stesso livello delle specifiche discipline di insegnamento, così da rendere ogni insegnante capace contribuire alla completa formazione scolastica di chi, in futuro, farà il suo ingresso nel mondo delle professioni.